AMICA SOFIA-"ATTUALITA' DEL MIDRASH EBRAICO COME METODOLOGIA DIALOGICA"-A.S.L.

Nella storia del pensiero, il dialogo è sempre stato annoverato tra le categorie più importanti della riflessione filosofica e, a partire dall’impostazione socratico-platonica, è stato spesso adottato come metodo del filosofare, in quanto argomentazione delle diverse opinioni alla ricerca di un termine medio, di un concetto in grado di unificare una molteplicità di pareri discordanti. Platone ha esteso l’approccio dialogico al rapporto con se stessi, al pensiero come «dialogo dell’anima con sé»; la filosofia è così diventata dialogo, in quanto conoscenza discorsiva, argomentativa, sapere ‘mediato’. L’esempio platonico è stato largamente seguito dal pensiero filosofico di tutti i tempi, fino alla crisi della modernità. Tuttavia, come gli scritti platonici mettono implicitamente in luce, questo modo di concepire il dialogo finisce spesso per trasformarsi in un «monologo camuffato», nel quale c’è un soggetto principale del discorso che porta avanti la sua tesi, non interagendo realmente con gli altri, in quanto non permette loro di apportare significative novità alla discussione perché ritiene di possedere già in se stesso la verità. Questo approccio evidentemente non si addice allo spirito autentico del dialogo come ricerca realizzata in forma cooperativa. Per questo, la filosofia dialogica oggi, lungi dall’essere un’attività di nicchia, si configura come la proposta di un ripensamento e di una critica radicale della filosofia e della cultura occidentali: una nuova formulazione dell’etica e della politica, del rapporto con l’altro, in modo tale che sia ancora possibile parlare di giustizia e di bene comune per l’umanità. Nell’antichità, oltre al modello del dialogo socratico, si andava sviluppando contemporaneamente un’altra tipologia dialogica nel pensiero ebraico – e particolarmente nel chassidismo – intimamenteconnessa alle istanze religiose del meta-racconto bilico di quella cultura medio-orientale e forse per questo motivo misconosciuta e in gran parte trascurata dal pensiero occidentale: il Midrash. Nel pensiero ebraico, una delle condizioni per dar vita ad un dialogo reale e non autoreferenziale sta nel riconoscersi mancanti, carenti, finiti: non semplicemente in senso fisico o morale, e neppure nel senso ovvio dell’umana fallibilità, ma come reale e peculiare condizione esistenziale degli uomini, che ne costituisce un’implicita ricchezza in quanto ne determina la caratteristica di ‘esseri che desiderano’. Desiderio e comunicazione da questo punto di vista si apparentano, derivando entrambi dalla parzialità. Se la nostra condizione fondamentale è il desiderio, non si tratta però del desiderio sovversivo di rovesciare lo stato delle cose e nemmeno di un progetto di appropriazione del tutto – questo va nella direzione della volontà di potenza, aborrita dalla filosofia ebraica – ma di un desiderio che si coniuga nel senso dell’amore. Qui si teorizza la positività della carenza: esser feriti, umiliati, non potenti. Essere esiliati, viandanti, errare nel doppio senso dell’andare per il mondo e di sbagliare: quello che spesso è visto come un tratto negativo, un limite dell’umanità, viene pensato in tale ottica come potenziale positivo, non solo e non tanto perché sarebbe l’anticipazione o la precondizione di una futura redenzione messianica, ma semplicemente nel senso di una valorizzazione attuale della condizione umana disarmata e delle sue potenzialità di apertura. A ben guardare, è proprio qui che si trova il fondamento etico della democrazia, in quanto la comune condizione di fragilità si traduce in desiderio di confronto, cooperazione emotivo-cognitiva, bisogno di riconoscimento e di relazione. L’inattingibilità della verità assoluta, concetto che accomuna laici e credenti, abbatte la supremazia di una malintesa o subdola autorità intestata a qualcuno che si metta alla guida del dialogo: è invece premessa e garanzia di un rapporto autenticamente paritario tra i dialoganti, ciascuno dei quali può attingere alla ‘verità’ soltanto dal suo peculiare, unico e irripetibile – e come tale prezioso e irrinunciabile – punto di vista.Il metodo midrashico, tuttora adottato dai rabbini per leggere le sacre Scritture, è fondato su queste premesse e – naturalmente – sulla fede nell’infinita sapienza della Rivelazione, che reca un messaggio ‘ad personam’ per ciascun uomo e contemporaneamente per l’umanità nel suo complesso. Il singolo lettore che si accosta alla Bibbia3 è perciò in qualche modo legittimato a cercarvi la propria verità e a rivelarla nella seduta dialogica per confrontarsi con l’altrui pensiero, cui riconosce reciprocamente pari dignità come intestatario del suo peculiare messaggio rivelativo. Il midrash (dal verbo darash, che significa cercare, interrogare, chiedere, scrutare, ma anche spiegare e interpretare) nasce dall’instancabile attività di indagine e di scrutamento del testo rivelato compiuta dal popolo ebraico.
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